Aneddoto. Mi è capitato di dover interpretare in simultanea verso l’inglese un oratore argentino durante una conferenza tenuta in lingua italiana su temi religiosi. Il suo era un buon italiano, tuttavia molto contaminato dalla sua lingua madre. Insomma, parlava in perfetto “itagnolo”, variante argentina. Con toni straordinariamente entusiastici e coinvolgenti, devo ammettere, un gran comunicatore e ispiratore, un mito di uomo con un carisma da far resuscitare anche le mie piante morte in balcone. MA…ma non esattamente il miglior oratore che un interprete si possa augurare, dato il grande mix tra le due lingue. Per fortuna le mie lingue di lavoro sono appunto italiano, inglese e spagnolo, perché la mia collega francesista che non parla una parola di spagnolo aveva le sue difficoltà, diciamo…al punto da trovarsi quasi più a suo agio a tradurre in relais dal mio inglese! Ma non finisce qui. Perché noi interpreti dobbiamo essere pronti a questo ed altro. Il meraviglioso itagnolo, variante argentina, dell’oratore era colorito da un fragoroso cachinno qui o una risatina asmatica là a completamento del suo pensiero appassionato lasciato a metà e da un linguaggio del corpo e una gestualità che sopperiva e parlava per lui in diversi passaggi nei quali i suoi concetti erano solo vagamente accennati a livello verbale. BENE. E tu sei in cabina, per fortuna con vista sull’oratore almeno! E si presuppone anche – o per lo meno a me piace fare così – che l’interprete trasmetta all’ascoltatore un minimo del tono e del colore del discorso del parlante, sempre nei limiti della neutralità richiesta deontologicamente dal suo ruolo.

Allora, il servizio di interpretariato in sé e per sé è andato bene, grazie e soprattutto al lavoro di squadra tra me e la mia collega, ma ancora una volta mi ha fatto riflettere sul livello di preparazione (a tutto!) e professionalità che un interprete deve avere. 

Quando parliamo di interpreti parliamo infatti di veri esperti, che con le loro abilità riescono a restituire all’ascoltatore non solo una corretta traduzione ma anche le intenzioni e le idee del parlante, per l’appunto.

Va da sé, pertanto, che per riuscire in questa impresa gli interpreti devono necessariamente avere una preparazione a tutto tondo che parta dalla conoscenza della lingua, con le sue regole di funzionamento, e finisca con una buona comprensione della cultura, degli usi e dei costumi del parlante. E a questo punto non solo! A mio avviso, deve anche essere preparato a ricevere e trasmettere empaticamente l’intenzione comunicativa e l’impatto emotivo che l’oratore vuole lasciare alla sua platea, con la voce.

Tra le sfumature di questa vasta gamma di nozioni, conoscenze e sensibilità c’è indubbiamente anche il linguaggio non verbale. Questo tipo di linguaggio comprende ogni sorta di “non detto” e lo esplicita, trasformandolo in una frase, in una domanda, in un’opinione o anche semplicemente in un certo tipo di intonazione, per tornare al mio aneddoto.

Riuscire a comprendere il linguaggio non verbale è quindi fondamentale per l’interprete. In alcuni casi – pensiamo al mio oratore parlante itagnolo, variante argentina, con messaggi da leader carismatico burlone e risuscitatore di piante da balcone morte – il difficile compito di parlare va, infatti, al professionista che sta cercando di rendere comprensibili i pensieri di chi ha di fronte.

Sempre senza dimenticare il suo ruolo neutrale, l’interprete dovrà cercare il più possibile di rendere chiaro anche quanto viene espresso da sguardi o gesti. Questi ultimi in particolare possono assumere significati diversi in base al paese di origine del parlante: basti pensare ai diversi modi di dire di salutare, dire di “no”, gesticolare, prestare attenzione con lo sguardo in tutto il mondo, che possono essere fraintesi se non avviene una corretta mediazione.

Il linguaggio non verbale assume dunque importanza pari a quella del linguaggio verbale: conoscerlo non è un plus, ma una necessità imprescindibile per svolgere il ruolo di interprete.

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